«Andreotti l'ho conosciuto durante la mia presidenza in Confindustria in una missione in Estremo Oriente. Lo ricordo con grande simpatia anche perché adesso abbiamo 180 anni in due». Come Andreotti, anche Luigi Lucchini, il Cavaliere, una vita nell'acciaio, ha 90 anni. Entrambi classe 1919, separati da appena sette giorni, l'ex presidente del Consiglio li ha compiuti il 14, Lucchini oggi 21 gennaio.

Come tutti i giorni anche oggi, il Cavalier Gino, come lo chiamano a Brescia, andrà in azienda. «Continuerò a farlo finché starò bene. L'ufficio è la mia seconda casa». Fino a poco tempo fa stava lì tutta la giornata, adesso l'hanno convinto a rallentare un po' i ritmi di lavoro. Ma sorprende come ancora a novant'anni più che parlare del passato ami progettare il futuro. Futuro che per il gruppo Lucchini sembrava non esserci più quando nel 2004 cominciarono a circolare voci sullo stato di salute di un'azienda che per decenni era stata una miniera d'oro, voci sempre più confermate dal viavai di banchieri che il Cavaliere stava contattando per tamponare i debiti fino a che un comunicato del 20 aprile 2005 annunciava la cessione del 62% della società ai russi della Severstal, tenendo per sé e i tre figli il 29 per cento. In molti parlarono di fine di una leadership a lungo indiscussa. Per i sindacati, che con Lucchini ebbero stagioni di aspri scontri, era un'altra resa per la siderurgia nazionale. Smontata Bagnoli, Terni acquisita dalla Thyssen Krupp, anche la roccaforte di Piombino passava in mani estere. Sotto il tricolore rimaneva solo Taranto con Cornigliano messa in riga, dopo gli sperperi pubblici, da Emilio Riva. Solo lui, Lucchini, all'indomani dell'arrivo dei russi, si sentiva tutto tranne che uno sconfitto.

E oggi ne è ancor più convinto. «Il rapporto con la Severstal russa è più che buono. Fin dall'inizio vi è stato grande affiatamento e i risultati positivi hanno reso tutto più facile. Non mi sono perciò mai sentito estraneo nella mia azienda. Che porta sempre il nostro nome e che soprattutto sta valorizzando buona parte del management che avevamo disegnato e implementato durante la nostra gestione diretta». E il riacquisto al 100% della ex Lucchini Sidermeccanica nel 2007, ribattezzata Lucchini Rs, voluto soprattutto dal figlio Giuseppe, è stato un altro segnale che il Cavaliere è ben lungi dal meditare il ritiro. Anzi. «È un'operazione molto interessante sul piano industriale, con risultati e prospettive importanti. Dal punto vista personale, è anche un'iniziativa che serve a riaffermare l'estrazione imprenditoriale del nostro Dna familiare».

La Lucchini Rs, che trae origini dall'ottocentesca fabbrica di Lovere fondata da Giovanni Andrea Gregorini, fa acciaio hi-tech per prodotti destinati, tra l'altro, alle ferrovie. E i binari furono la materia prima che fece la fortuna dei pionieri del tondino nelle valli bresciane subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Il giovane Lucchini, nella vecchia officina paterna di Casto - un autentico "antro di Sigfrido" dove fino allora al maglio si forgiavano badili e forconi per l'agricoltura - capì la fortuna che poteva scaturire dalle rotaie in disuso per i bombardamenti e dai rottami di ferro dei campi Arar lasciati dagli Alleati, se invece di attrezzi per l'agricoltura si faceva il tondino, l'anima di ferro da mettere nel cemento armato, richiestissimo da un'edilizia che stava conoscendo un boom vorticoso in tutto il Paese.

E la rotaia, nelle mani dei "master" bresciani, non aveva nemmeno la necessità di essere fusa: bastava una semplice operazione di rilaminazione con impianti rudimentali per trasformare tonnellate di rottame in tondino. Fu la fortuna per i Lucchini ma anche per i Leali e i Pasini di Odolo, per i Bellicini di Bienno. Soldi a palate: il prezzo del rottame era attorno alle 20 lire al chilo, quello del tondino sei volte tanto. Tra il 1946 e il 1948 fu un Bengodi irripetibile. Al riparo di occhi indiscreti perché ancora negli anni 70 di Lucchini si conosceva poco o niente, ma si favoleggiava della sua abilità e dei suoi guadagni. Solo il dramma del rapimento del figlio Giuseppe, allora ventiduenne, portò alla ribalta della cronaca il nome del "re del tondino". Era il 15 novembre 1974. Il Cavaliere pagò un riscatto miliardario. E tornò nell'ombra, chiuso nella sua azienda lavorando sodo sei giorni alla settimana. A fatica riposava la domenica: niente tondino, spesso la passava acquistando collier e braccialetti esclusivi che l'amico Bulgari, il gioielliere, gli portava a casa per farne regalo alla moglie Emilia.

Ma nell'Italia degli anni 80, Lucchini, che nel 1975 era stato nominato Cavaliere del lavoro, non poteva più nascondersi, anche perché Brescia, grazie ai tondinari, era divenuta la terza potenza industriale italiana come fatturato, ma la prima come profitti. Così, malgrado il suo innato understatement, Lucchini si trovò designato al vertice della Confindustria. Succedeva a Vittorio Merloni, esponente di spicco della "via adriatica allo sviluppo". Dal 1984 al 1988, tanto durò la permanenza di Lucchini a viale dell'Astronomia, il Paese conobbe una ripresa economica formidabile, drogata dal boom di Borsa per l'avvento dei nuovi fondi.

«Fare le cose bene è fondamentale sempre, ma poi bisogna aver anche fortuna», ripete Lucchini ricordando quel periodo dominato politicamente dalla personalità di Bettino Craxi. «È stato – dice a proposito del leader socialista – la persona che più mi ha colpito per intelligenza e brillantezza». E riandando nella galleria dei personaggi che non ci sono più, è invece Enrico Cuccia quello di cui Lucchini dice di sentire di più la mancanza. «Un grande uomo, un maestro».

Lucchini è sempre piaciuto a Cuccia. Colpiva il vecchio banchiere la sua determinazione abbinata alla più totale discrezione. Così nei primi anni 90, quando Lucchini aveva da poco messo mano anche alle Acciaierie di Piombino, uno dei pezzi più pregiati della siderurgia di Stato in via di smantellamento, Cuccia gli chiese di prendere il posto di Guido Rossi al vertice della Montedison sull'orlo del dissesto dopo il crack Ferruzzi. Lucchini accettò. E così fece, moltiplicando gli incarichi, quando Mediobanca lo chiamò a succedere in Comit a Luigi Fausti. Era il 29 settembre 1998. Compito non facile perché formalmente a Lucchini era stato affidato il compito di esplorare tutte le possibili alleanze per una Comit attorno alla quale si erano scatenati gli appetiti di tutti. Gli Agnelli la volevano in nozze con il San Paolo di Torino. Mediobanca puntava a fonderla con la Banca di Roma per aver controllori più affidabili di Unicredit che, guidato da Alessandro Profumo, voleva lanciare un'Ops su Piazza Scala.

Ci furono assemblee tempestose. In quella del 28 aprile 1999 fece sensazione il "j'accuse" di Diego Della Valle, fresco azionista della Commerciale, contro Mediobanca: un intervento in difesa di Alberto Abelli e Pier Francesco Saviotti, i due amministratori delegati che "tifavano" più per le nozze con Unicredit che per l'integrazione con la Banca di Roma di Cesare Geronzi. Alla fine della bagarre non vinsero né Cuccia, né Profumo, ma Giovanni Bazoli che con Intesa incorporò la Comit. Lucchini si dimise. Di lì a poco se ne andò anche da Montedison, indebolita dal fallito matrimonio con la Falck e subito presa d'assalto dall'Italenergia del gruppo Fiat, che finì per aprire le porte di Edison alla francese Edf.

Siamo nel luglio 2001. Per Lucchini era, peraltro, tempo di dedicare di nuovo tutto se stesso all'azienda di famiglia, finita in una fase di stallo proprio mentre Mediobanca, dopo la morte di Cuccia e l'uscita di Vincenzo Maranghi, stava cambiando pelle e alleanze. Se ne accorse subito il Cavaliere nei contatti con le banche creditrici. Chiamò in aiuto Enrico Bondi, ma non bastò. Si è arrivati così all'accordo con Severstal.

Ripercorrendo le cose fatte, Lucchini è sereno, non rinnega niente. «Nel bene e nel male, questa è la mia storia. Rifarei perciò tutto, senza indugi e con entusiasmo». E dall'alto dei suoi novant'anni, di fronte alla grande crisi di questi tempi, non vuol dare ricette, ma lancia un monito: «Senza manifatturiero, cioè senza sudore e coraggio, non si va lontano. Qualcuno pensava di aver trovato scorciatoie senza capire le controindicazioni e i rischi che sono deflagrati mettendo in difficoltà anche l'economia reale. Lucchini non fa nomi, ma lascia intendere che almeno a Brescia ci sono eccezioni. «Qui - è la sua scommessa sul futuro - la matrice industriale avrà sempre la meglio sulla finanza pura».

 

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